Myrtil in ghingheri

Certo Myrtil non poteva rimanere senza abiti. Da appassionato di maglioni quale sono, ho trovato appagante confezionare un maglioncino in così poco tempo. Mi è sembrato un po’ come barare, specialmente rispetto al mio solito: ogni maglione che faccio per me passa attraverso due o tre stagioni e visita una serie di luoghi diversi prima di essere terminato.

Trovo divertente poter creare più accessori per lo stesso orso e sostituirli a seconda del periodo dell’anno. I gomitoli da 25 grammi della Katia sono perfetti a questo scopo. I colori sono tenui e si adattano allo stile filato principale, come il giallo dei calzini. Il maglioncino blu è realizzato con un tweed che acquistai da Ivana tempo fa.

Il motivo sul torace, creato da gruppetti di rovesci frammisti a diversi ferri dritti, genera una tensione considerevole e, senza un buon bloccaggio, il maglioncino rimane quasi accartocciato. Trovo sempre incredibile la differenza tra prima e dopo il bloccaggio!

Sono stato particolarmente fiero di me per aver individuato un errore nel pattern del calzino, che ho prontamente segnalato all’autrice. Ciò nulla toglie alla eleganza dello schema e alla bellezza del prodotto finale.

Alla fine di tutto ho deciso di battezzare il mio Myrtil Bear con un nome proprio. D’altra parte Myrtil Bear è il nome del pattern. Quindi, stante il periodo dell’anno e il mio amore per la lingua inglese, la scelta è caduta sul nome Panettone, da leggersi rigorosamente con accento british. Un po’ perché fa buffo, un po’ perché i nostri affetti si ritrovano nelle parole che scegliamo.  

Praticità

Myrtil Bear è a buon punto e, per celebrare finalmente l’upload di una grafica appropriata a Stellæ, da lungo ricercata e perfezionata grazie all’aiuto di Francesca, voglio postare alcuni scatti di questo tenero orso. La stella ad otto punte in origami è costituita da otto moduli identici, ed è la creazione che diede originariamente il nome a questo blog.

Sia beninteso, per celebrare questo meraviglioso pattern geometrico, che pienamente soddisfa il mio amore per la simmetria, ho anche in preparazione alcuni gin tonic da sorseggiare con una serie di nuovi gusti di patatine Kettle (le mie preferite in assoluto, maledetti loro che sfornano droga legale a gogo). Una cena sana ed equilibrata da gustare dalle 18 alle 24 no-stop davanti ad una maratona di Harry Potter. Non sia mai detto che non faccio le cose in grande.

Le braccia di Myrtil sono state faticose, ma ancora più le zampette finali: meno di 15 punti montati su 3 ferri da 2 mm equivale a scontare una penitenza. La diminuzione alla fine del braccio, però, come a mimare un ipotetico polso, crea un grande realismo. La chiusura con il Kitchener Stitch è elegante e completa la zampa senza gap.

Il corpo, invece, va via liscio. Sono anche ritornato ad usare i ferri in metallo da 20 cm, che avevo abbandonato per quelli in bambù da 13 cm nelle braccia. Questi ultimi sono di infima qualità, ma hanno fatto il loro lavoro. Quindi ho messo nella mia Wishlist su Amazon i Symfonie Wood della KnitPro, il set completo da 10 cm in legno. Chissà mai che qualcuno abbia voglia di farmi una sorpresa.

I materiali sono importanti. Ormai ne sono consapevole così a fondo che non mi chiedo nemmeno più se vale la pena acquistare questo o quello strumento, visivo o pratico. Il punto è solo: come entrarne in possesso? La Wishlist di Amazon è una strategia a mio avviso vincente. Non poetica, certo. Ma, nella irrinunciabile tradizione di scambiare un dono con gli amici più cari, prediligo praticità. L’affetto, beh, quello dura tutto l’anno. Preferisco semplificare ciò che è accessorio per godere dell’indispensabile.

Grandi sfide e dopamina

Diciamolo subito: io ho il 46 di piede e delle manine altrettanto modeste. Usare i ferri del 2 mm non è una passeggiata, una cosa che puoi fare la sera, di rientro dal lavoro, tra un drink e l’altro, con un sottofondo di musica classica. Maneggiare i ferri del 2 mm è piuttosto un lavoro di estrema concentrazione, ci vuole qualcuno che nel frattempo ti tamponi il viso e ti sussurri: vai vai, ce la puoi fare!, mentre una pizza con doppia mozzarella si cucina in forno come premietto finale.

Non avevo mai provato a costruire un pupazzo ai ferri prima, e nemmeno ad utilizzare dei ferri così sottili. È una vera sfida. Ci sono tanti passaggi nuovi e concetti oscuri alla prima lettura. Fortunatamente il filato è meraviglioso e il pattern di Myrtil Bear molto chiaro; dove non basta la spiegazione scritta, attingo come sempre a YouTube. Nei punti più difficili faccio delle prove a parte, con ferri più grandi. Ho scoperto questo escamotage, in effetti ovvio, solo recentemente: mi permette di affrontare il lavoro definitivo con meno tensione e più confidenza.

Sto imparando nuove tecniche, come: tirar su i punti direttamente dalla trama della maglia rasata (per iniziare le orecchie), la chiusura ad ago Kitchener Stitch (per chiudere il margine superiore delle orecchie), inserire gli occhi nel lavoro e principi di ricamo (per ricoprire il naso e disegnare la bocca con del filo nero). Ho anche ripassato i ferri accorciati, che è sempre buona cosa.

Non lo nego, è stata dura. Per ogni orecchio ho impiegato circa 45 minuti. Ho proseguito lentamente, nel timore di fare cadere uno dei ferri, sostenuti a stento da 4 punti alla volta. A volte mi sono un po’ perso d’animo, ho lanciato un paio di gomitoli attraverso la stanza, ma non ho mollato. Mi sono anche chiesto, con frustrazione dilagante, a malapena tenuta a bada da diversi biscotti scozzesi al burro: ma chi te l’ha fatto fare, ma non potevi proseguire con le piastrelle grigie e buona notte? Che dire… mi piace variare, mi piacciono le sfide, mi piace imparare cose nuove, migliorare, stupirmi e rimanere soddisfatto. Sì, perché le sfide sono questa cosa qui: mettersi alla prova e insistere finché non ci si riesce. Perché lo facciamo? Per il senso di soddisfazione che arriva alla fine, per poter dire: ce l’ho fatta!

C’è anche una base biologica a tutto questo. La vittoria finale, il senso di riuscita, la soddisfazione nel vedere un manufatto realizzato personalmente alimentano un circuito cerebrale chiamato sistema della ricompensa o reward system. È un network di neuroni molto antico, che funziona prevalentemente tramite un neurotrasmettitore chiamato dopamina. Si attiva in varie occasioni: quando otteniamo un premio esterno per i nostri sforzi, quando le nostre azioni generano risultati ritenuti positivi, quando il nostro ego viene rinforzato.

È un sistema davvero figo, che dei pro e contro, perché anche stimoli potenzialmente sfavorevoli possono accenderlo, ad esempio scofanarsi un chilo di gelato davanti alla serie TV preferita o scommettere che Palomo arriverà al traguardo prima dei suoi cavalli rivali.
Quello di proporsi nuove sfide basate sul sé è un metodo piuttosto sano per attivare il circuito della ricompensa. Miriamo a 10 km di corsa, ad imparare una nuova lingua, ad un pupazzo tutto col ferro del 2 mm. Selezioniamo bene e proviamoci, per davvero però. I primi risultati già anticipano la gratificazione finale.

Coperta pop matrimoniale: l’inizio

La produzione di piastrelle color grigio è cominciata. Okay, ad essere preciso non sono ancora piastrelle: per ora ho prodotto solo la parte circolare interna. Al momento mi attesto sugli 80 cerchi circa, grazie anche al contributo prezioso di Katia, una delle LaNoLer. Mi fermerei a 100 (circa un quarto del totale) e procederei con il bordo. A tal fine, sto attendendo di recuperare 3 kg di lana da Ivana Battiston, che ha un negozio temporaneo e un sito internet davvero meritevoli. Ivana viene a Milano un paio di volte al mese, portando con sé prodotti variegati, smarchiati, di qualità e a prezzi interessanti. Il corrente lockdown mi mette ovviamente in difficoltà e quindi non posso recuperare il color panna di cui ho bisogno. Potrei compilare un’autodichiarazione e andare a trovarla nel biellese, dove abita, ma non sono certo che le forze dell’ordine accetterebbero “incetta di lana” come giustificazione a carattere di emergenza.

I grigi in foto provengono da vari negozi, sia fisici che online. Le tonalità sono numerosissime e i filati molto diversi tra loro. Non sto escludendo quasi nulla e mescolo tweed con mohair, lana merinos con acrilico, accoppiando anche fili troppo sottili per essere lavorati da soli. A volte mi sento un po’ un delinquente, come quando ho unito una sottilissima pura lana vergine scozzese con un acrilico appena uscito da peggiori bar di Caracas. Però alla fine mi sembra funzionare. Forse, prese singolarmente, alcune piastrelle non hanno molto senso, ma conto sull’effetto finale della composizione.

Anche gli altri membri del LaNoLo hanno rovistato tra le loro scorte e mi stanno aiutando con delle matassine di grigio. Mi piace immaginare che, in qualche modo, la coperta sarà il prodotto di un aiuto proveniente da varie persone a cui sono affezionato. A tutti gli effetti uno dei motivi per cui, ormai quattro anni fa, mi impegnavo a mettere insieme quello che sarebbe poi diventato il nostro knit club di quartiere, era proprio il desiderio di creare un gruppo coeso, fondato su aiuto reciproco e risate leggere (e alcuni carichi spritz Aperol di Barbara, che ci ospita insieme a Luciana ogni giovedì sera). Così un domani, mentre leggerò un libro a letto, mi cadrà l’occhio sulla piastrella di Giovanna, di Ester, di Laura o di una delle altre compagne ed amiche del club, e mi verranno in mente le chiacchierate in compagnia, i favori reciproci, le esperienze comuni.

D’altra parte la maglia, così come altre passioni, è responsabile anche di questo: unire le persone sotto la stessa stella. Quando arriva il giovedì sera, so che andrò in un ambiente dove le mie fatiche vengono riconosciute, potrò condividere gli sbagli e trovare delle soluzioni, ridere per delle sciocchezze e imparare a prendermi un po’ in giro. E alla fine della serata tornerò a casa contento. Perché avrò trascorso un paio d’ore con persone che, da compagne di hobby, sono diventate parte della mia famiglia.

Direzioni

Nella costruzione del cardigan stile orientale che ho descritto qui, mi sono trovato davanti ad alcuni interrogativi:
Integro il bordo anteriore direttamente nel corpo e indovino già all’inizio la distribuzione di asole e bottoni?
Oppure prima lavoro il corpo e poi tiro su i punti per il bordo?
Il collo andrà costruito alla fine, dopo corpo e bordo?
Oppure l’ordine dovrebbe essere corpo, collo e solo alla fine bordo anteriore, in modo che quest’ultimo diventi un’unica banda verticale?

Le implicazioni erano numerose, e ad un certo punto mi sono stufato e ho seguito il mio sesto senso. L’ordine finale è quello in foto: 1 corpo, 2 bordo, 3 collo.

PRO
Lavorare il bordo separatamente mi ha permesso di distribuire in modo equidistante le asole con facilità. Conoscendo il numero di punti tirati su per il bordo, ho diviso tale valore in modo equo avvalendomi di uno schema su PC (1 punto = 1 quadratino).

CONTRO
Poiché il bordo non arriva sino in alto, non ho potuto posizionare l’ultima asola in prossimità dell’angolo superiore. La chiusura quindi rimane più bassa e gli angoli tengono leggermente ad aprirsi. Inoltre, la continuità della texture viene interrotta. Il bordo è sì lavorato a legaccio, ma in direzione perpendicolare alla parte superiore del corpo.

In futuro potrei ripetere questo modello costruendo già da zero un collo alto come quello in foto (tutti giri in piano, senza aumenti per gli scalfi, manterrei solo una differenza di altezza tra il dietro e il davanti come faccio sempre) e lavorando il bordo finale su tutta l’altezza del cardigan. 

La costruzione di un modello è sempre un percorso affascinante. Incappo continuamente in scelte da compiere. Talvolta nemmeno mi aspetto di doverne fare e invece tiè, un’altra biforcazione, un’altra decisione da cui dipenderà l’esito del prodotto finale. È roba tosta, non sempre imbrocco la strada giusta. Per uno ossessivo come il sottoscritto è un bell’allenamento. Fin quando si tratta di scegliere quale film guardare o se mangiare una brioche alla crema o una alla marmellata è facile (se non altro perché di solito me le mangio tutt’e due). Se si tratta di un maglione intero, eh, diventa un po’ più una sfida: se sbaglio, mi tocca disfare tutto.

Se si tratta della vita, le scelte da compiere possono essere una vera fregatura. Talvolta uso tutto il mio buon senso e azzecco la strada giusta. Talvolta invece faccio affidamento al cuore, all’istinto, e me la cavo egregiamente. Corteccia frontale e prefrontale da una parte, sistema limbico e amigdala dall’altro. Collisioni, bisticci e un gran casino di emozioni.

Non c’è una regola definitiva, ognuno fa quello che può e che si sente. Alla fine però l’importante è muoversi e scegliere.

Minimalismo

Una delle parole d’ordine che contraddistingue il mio stile di knitter è minimalismo. Non sono un appassionato di punti complessi o trecce. Maglia rasata, legaccio e coste sono sufficienti. In particolare, apprezzo la giustapposizione di maglia rasata e legaccio, punti che esaltano la bellezza reciproca proprio quando sono accostati.

Per questo motivo mi sono detto: dai, proviamo a costruire un cardigan utilizzando legaccio per la parte superiore e maglia rasata per quella inferiore e per le maniche. Volevo qualcosa di lineare, ispirato alla tradizione giapponese, che di minimale ha tutto. Così ho scelto di non lavorare uno scollo, come nei classici cardigan con collo a V; invece, ho tenuto la linea del collo alta, nel tentativo di creare un aspetto tipo giacchetta orientale.

Forse avrei potuto utilizzare una lana diversa per questo manufatto, qualcosa dai toni più neutri, meno rustica, più in linea con lo stile che volevo dare al lavoro. Forse avrei proprio dovuto evitare un tweed, che è pure tra i miei filati preferiti. Ma tant’è, il risultato mi ha felicemente sorpreso.

Ho sempre desiderato visita il Giappone e l’Oriente, nella sua interezza. Nel febbraio 2020 era in previsione un viaggio in Vietnam e Cambogia, che abbiamo dovuto sospendere per motivi di salute. Poi, a due giorni dall’ipotetica partenza, è esplosa la nota pandemia da Coronavirus e nulla. Forse era destino.

Spero sempre di vedere i ciliegi in fiore a Kyoto, e inganno il tempo che dovrà trascorrere prima di programmare un nuovo viaggio studiando le linee dei capi giapponesi. Mangio ravioli al vapore, imparo a fare onigiri e condisco il tutto con molto sakè.

D’altra parte la maglia serve anche a questo: portare nella nostra quotidianità qualcosa di remoto, per assaggiare pezzi di emozioni lontane. In attesa di farlo dal vivo.

Il polsino

Il vantaggio principale nell’utilizzare le coste 1×1 è quello di chiudere in tubolare. È una tecnica un po’ rognosa, forse, ma persino io, che cerco di utilizzare l’ago da maglia il meno possibile, trovo restituisca un gran bel risultato.

Nelle coste 2×2 non è possibile procedere con chiusura in tubolare. O meglio, si può dopo aver lavorato 4-6 giri a coste 1×1, ma il passaggio tra i due rapporti si nota. Alla fine quindi ho chiuso questo polsino in modo classico, alternando il filo tra dietro e davanti al passaggio tra diritto e rovescio. Il rischio ovviamente è che, col tempo, il polsino perda di elasticità e ceda. Poco male, ho lana extra per disfarlo e rifarlo, un domani.

La lunghezza totale che utilizzo per un polsino corrisponde a numero di giri che ho precedentemente usato per il bordo inferiore del corpo. Di solito si attesta sui 4-5 cm. Mi giostro tra questi due valori a seconda della lunghezza totale della manica, aggiustando eventualmente in eccesso o difetto.

Una delle cose più affascinanti del lavoro a maglia è che stimola la capacità di adattamento. Spesso sono costretto a fermarmi e rivedere un progetto già in corso, modificarlo in alcune parti, e forse arrivare ad un risultato diverso da quello atteso. Un punto che manca, una manica troppo lunga, un bordo che viene male e molti altri imprevisti che allenano pazienza e aumentano ogni volta il bagaglio dell’esperienza. Mi ricorda un po’ quello che accade nella vita quotidiana.

Forse fare un maglione è un po’ un allenamento ad affrontare i contrattempi di tutti i giorni. Talvolta costa un bello sforzo per cavarsi dagli impicci. Alla mal parata bisogna disfare e tornare indietro. Ma mai lasciare il lavoro a metà.

Le maniche

Io lavoro il busto per primo perché lo trovo più vago e quindi più noioso delle maniche. Cresce lentamente, non ho un punto di arrivo certo, va provato diverse volte per capire se ci siamo con la lunghezza e posso partire col bordo inferiore o meno. Tira di qua, liscia di là, guardati allo specchio, davanti, dietro, boh. Non sono mai sicuro. Spesso sbaglio. Una rottura insomma.

Lascio le maniche per ultime. Ho la sensazione di controllarne meglio lo sviluppo, perché all’inizio della prima manica, grazie ad una formula che ho ormai reso universale tramite un foglio di calcolo su Excel, riesco a calcolare con precisione quante diminuzioni dovrò effettuare per arrivare ad una certa circonferenza, prima di iniziare il polsino. Quindi mi costruisco una tabella con, nella prima colonna, il numero di giri da lavorare in piano + quello in cui effettuare le diminuzioni (solitamente il sesto o settimo), e nella prima riga il numero totale di di volte in cui ripetere il tutto. Poi via di spunte in ogni casellina.

La ricetta è infallibile, e arrivo giusto giusto con i ferri circolari all’ultima diminuzione prima di iniziare il polsino.

Per il Daelyn Pullover, ho diminuito ogni settimo ferro per un totale di 13 volte. Dopo l’ultima diminuzione, preferisco passare al gioco di ferri per fare il polsino (quelli in foto sono del 4.5 mm, di 0.5 mm in meno rispetto al lavoro principale). I punti infatti diventano pochi e per proseguire con i circolari dovrei stirarli lungo il cavetto, e non mi piace sollecitare il filato senza un vero bisogno. Tra l’altro, mi piace anche la gestualità che entra in gioco nel maneggiare questi cinque bastoncini.

Se per caso il numero di punti non è preciso, lo sistemo al primo giro di coste, in modo da ottenere un numero di punti pari (se progetto coste 1 x 1) o multipli di 4 (se ho in mente coste 2 x 2, come più spesso succede). Prima mi preoccupavo di arrivare al numero corretto prima di effettuare le coste, e ciò mi procurava inutili mal di testa. La mia amica Laura è una che tende alla semplificazione, e mi ha insegnato questo trucchetto. Il cielo sa quanto un ossessivo come me ha bisogno di amici knitter per limare le proprie rigidità!

Ad oggi so la lana perdona e che una scorciatoia qua e una là aiutano a rilassarsi e a godersi meglio quest’arte. E col tempo che risparmio posso bere uno spritz in più.

Il maglione

Il motivo principale per cui, anni addietro, iniziai a lavorare a maglia era il desiderio di realizzare un maglione. Per me, ma anche per la persona che avrei amato.

Trovo ci sia qualcosa di poetico nel lavorare incessantemente ad un progetto complesso per poi donarlo a qualcuno. In particolare, nel mio immaginario, il maglione è l’emblema del lavoro a maglia, il capo a cui tutti i principianti aspirano e che, una volta realizzato, fa dire: ce l’ho fatta. Per me ha anche il valore simbolico dello “stare addosso”, dell’abbracciare interamente chi lo riceve. È un po’ come stare con quella persona, anche quando si è lontani.

Dai miei primi passi di knitter sono passati ormai sette anni. Di maglioni ne ho fatti, alcuni seguendo schemi, la maggior parte usando metodi di costruzione Top Down ritagliati sulle mie misure (Fringe Association è stata la svolta).

Il lavoro attuale è un Daelyn Pullover della bravissima Isabell Kraemer, lavorato con uno splendido Felted Tweed Aran della Rowan, color Clay.

Il pattern mi ha fatto conoscere le German Short Rows, che all’inizio mi han spaventato ma dopo poco mi sono parse semplici e anche una bella trovata a dirla tutta, meglio delle Wrap and Turn. Un tentativo seguendo una taglia M non è andato a buon fine: tirava sotto le ascelle. Ho dovuto disfare, e seguire le indicazioni per una L. Mi sono sentito un po’ a disagio e ho ripensato ai vari gelati e biscotti Bahlsen che ingollo ogni sera davanti alla TV. Alla fine ho deciso che è colpa della lana, del campione, della Kraemer, dell’umidità, insomma di tutti tranne che mia, e ho proseguito con la L e dolciumi vari.

Dopo un tempo infinito per il corpo, che realizzo sempre per primo, le maniche stanno procedendo in modo spedito, complice il periodo di lockdown appena iniziato, che mi confina nei miei quarantadue metri quadri. Cerchiamo di vedere il bicchiere mezzo pieno. Forse per una volta finirò un maglione prima del solstizio d’inverno!